Francesca Schiavone, prima tennista italiana a conquistare gli Internazionali di Francia, il 3 giugno 2010, e Federica Pellegrini, record mondiale sui 400 metri di nuoto del 2009, hanno raggiunto gli onori delle prime pagine - in box piuttosto piccoli per la verità, a fronte delle loro grandi vittorie….
Gioco in una squadra di calcio, la Wendy F.G. (Football Girls). Lo scorso anno abbiamo organizzato una piccola mostra sulla storia dello sport femminile, con particolare attenzione al calcio. Esigenza naturale: giocando a calcio, ci si imbatte di frequente in alcuni stereotipi: “Ma non siete tutte lesbiche?” ,“ Non diamo il campo a squadre femminili, perché con i capelli ci intasano le docce” “Il calcio non è uno sport molto femminile….” “E come fate con gli stop di petto?”
Un incontro in Palestina con alcune squadre di calcio femminile ha ulteriormente sensibilizzato alcune di noi in merito allo sport come strumento di espressione e come metodo di emancipazione sociale.
La mostra ci sembrava una cosa da fare.
Nel corso delle nostre ricerche abbiamo scoperto delle cose interessanti. Ad esempio che Pierre de Coubertin (1863-1937, fondatore dei Giochi Olimpici moderni) era assolutamente contrario alla partecipazione femminile alle Olimpiadi. Lo sport, secondo lui, fondamento della pace e della civiltà, strumento di salute e benessere fisico e mentale è un diritto di tutti, forse anche un dovere sociale, addirittura politico, ma non per le donne. Le donne, infatti, non avrebbero assolutamente dovuto nemmeno assistere ai giochi, tantomeno parteciparvi! Unico compito delle donne? Generare e allevare gli atleti maschi, nonché sostenere le loro imprese sportive.
Ma c’è un altro aspetto, squisitamente materiale, di fondamentale importanza nelle relazioni fra donne e sport.,l ’abbigliamento. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, uno dei primi sport nei quali la donna può cimentarsi è il ciclismo (cfr. Alfonsina Strada nell’enciclopedia); la bicicletta, infatti, è un mezzo di locomozione economico che le donne cominciano ad utilizzare ben presto per andare a lavorare in fabbrica, o nelle campagne; questa possibilità rende familiare e socialmente accettabile lo spettacolo di una donna in bicicletta. La bicicletta per prima porta con sé alcune rivoluzioni nell’abbigliamento: innanzitutto la liberazione dal busto, una delle torture più durature nella storia dell’abbigliamento femminile, l’utilizzo della biancheria intima (l’uso quotidiano della biancheria intima era stato per molti secoli appannaggio esclusivo delle classi più agiate) e il passaggio ad abiti più consoni al pedalare: non più gonnelloni e sottogonne fruscianti ed ingombranti, ma gonne più sobrie, gonne-pantalone, fino ad arrivare ai veri e propri pantaloni.
In molti altri sport la possibilità di accesso per le donne passa attraverso la conquista dei pantaloni o dei pantaloncini. (Parleremo in altra occasione della “rivoluzione” dei pantaloni, che oggi possiamo solo misurare dal fatto che solo 60 anni fa in alcune chiese una donna in pantalone era “sgradita” poiché considerata sconveniente).
Nel calcio, le prime squadre femminili, negli anni Trenta, indossano perlopiù la gonna. Solo le operaie della Dick Kerr, in Inghilterra, la prima squadra di calcio femminile che si annoveri nella storia, indossano i pantaloncini, ma soltanto perché, per risparmiare, usano la divisa della squadra maschile. Nell’immagine qui sotto riportata si vede la prima partita femminile di calcio che si ricordi: a Londra Inghilterra del nord - Inghilterra del sud (7-1, per la cronaca). Le giocatrici indossano enormi gonnelloni (e le forze dell’ordine sono schierate per un evento considerato di certo eccezionale e forse un po’ sovversivo). Il tennis, molto praticato fin dalla fine dell’800 nei paesi anglosassoni, ha lo stesso problema. Guardate le foto della povera tennista costretta a giocare con quella gonna enorme, siamo nel 1918.
Vittorina Vivenza, la prima azzurra a vincere una medaglia mondiale (il bronzo nel disco) ai Giochi iridati femminili del 1930, racconta in una intervista rilasciata al Corriere della Sera nel 2002: «Fui denunciata al vescovo perché mi allenavo in pantaloncini»...
Passano per i vestiti mentalità e comportamenti, idee possibili. Nello sport la libertà di movimento è passata contrastando quella idea del vestito come maschera sociale che deve, possibilmente “coprire” il corpo, dissimulare la sua struttura dentro un modello a scapito della libertà di muoversi.
Aver conquistato la libertà di muoversi non è cosa da poco.
E per ora ce l’abbiamo fatta. Alla faccia di Pierre de Frédy, barone di Coubertin!
margherita
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